Ormai sembra insanabile il distacco generazionale che la nuova tecnologia ha imposto alla nostra società. Quante volte ti è capitato di “litigare” con il telefonino o con il computer? Ti è mai successo di provare ad insegnare al nonno, o a tua madre, l’utilizzo di un software o semplicemente come si invia una mail?
Queste cose non succedono certo con i nostri figli, con i nipotini, con i “nuovi giovanissimi”, che riescono inspiegabilmente a compiere operazioni complicatissime, e velocemente, con qualsiasi genere di nuovo marchingegno touch screen. Come fanno a comprendere subito come funziona quello strano oggetto tecnologico?
La spiegazione è semplice: sono i nativi digitali (digital natives).
I nati del terzo millennio hanno a che fare con un mondo digitalizzato molto più evoluto rispetto a quello dei loro padri, e decisamente differente rispetto a quello medioevale dei loro nonni. I bambini che stanno crescendo ora sono in grado di ascoltare l’I-pod mentre messaggiano con un amico e navigano in internet: è una generazione decisamente più multitasking rispetto a tutte le altre precedenti, come bene afferma Pier Cesare Rivoltella nel suo ottimo “Neurodidattica”, 2012. Interessante è la metafora introdotta da Marc Prensky, noto sviluppatore di videogiochi ma anche fine pensatore, che pone un distinguo tra questi nuovi “tipi umani” (tra parentesi le mie personali considerazioni):
– Il nativo digitale: è colui che, come un madrelingua, fin dal momento in cui si è affacciato al mondo ha iniziato a interagire con le tecnologie digitali. Per lui la tecnologia è parte integrante del contesto sociale (sono i giovani di oggi, le ultime generazioni, i multitasking).
– L’immigrato digitale: generalmente i nonni e i padri dei nativi digitali, sono arrivati alla tecnologia successivamente, percependola come un territorio straniero, e non riusciranno mai ad avere la stessa competenza dei nativi (questa è la specie in via di estinzione, per intenderci).
– Il recluso digitale: persone costrette a usare i computer per lavoro, che proprio per questo spesso li escludono dalla loro vita privata (sviluppano delle strane forme di repulsione tecnologica: anche qui, estinzione).
– I rifugiati digitali: persone indotte all’uso della tecnologia, che preferiscono stampare quello che devono leggere, non credono nell’informatica, necessitano di assistenza (sono l’incubo dei nativi digitali, i quali spesso fuggono pur di non relazionarsi a loro).
– Gli esploratori digitali: sono sempre alla ricerca di nuovi strumenti più facili e veloci rispetto a quelli che hanno in uso (sono considerati una specie interessante dai nativi digitali) .
– Gli innovatori digitali: modificano e adattano vecchi strumenti perché possano svolgere nuovi compiti e ne sviluppano di nuovi (nostalgici, geniali e simpaticamente borderline)
– I drogati digitali: dipendenti dalla tecnologia, vanno in crisi quando non c’è campo o manca la connessione (i nativi digitali li guardano provando comprensione).
E tu in quale di questi profili ti riconosci? In qualsiasi profilo tu sia, mi auguro che questa distinzione ti abbia fatto sorridere e magari pensare a qualcuno che ben conosci e con il quale un giorno affronterete l’argomento. Trovo interessante condividere con te queste simpatiche riflessioni, tuttavia come di consueto voglio ritornare al tema fondamentale del mio blog e porti alcune domande.
Il nativo digitale secondo te si preoccupa mai del suo stato d’animo?
Prova ad immaginare l’espressione e l’atteggiamento del giovane del terzo millennio mentre è intento a svolgere 4 operazioni (come un vero multitasking): com’è il suo volto? Cosa traspare dai suoi movimenti? Ha ancora le sembianze umane? 🙂
L’estrema alfabetizzazione digitale potrebbe portare a dimenticare le sensazioni interne che ognuno di noi è progettato a provare per natura? A volte mi interrogo sul piacere che provano alcuni ad allevare il cucciolo digitale di cane, oppure a coltivare l’orto virtuale. E mi chiedo che differenza ci sia tra quel piacere, e il gusto di farlo nella realtà.
Rispondere a queste domande è complicato perché necessita di una macchina del tempo e di una notevole quantità di fiducia nel meccanismo di auto-regolazione della coscienza collettiva. Ammesso che esista veramente: io ci voglio credere.
L’alternativa è immaginare nel 2080 di incontrare un uomo e chiedergli:
“come stai?”
…e sentirsi rispondere:
“cosa vuol dire?”.
Si accettano divertenti scommesse…